
Ho lasciato decantare per qualche giorno, prima di scrivere sui giorni passati a Varanasi. Un po’ per stanchezza, un po’ perché sopraffatta da alle cose da fare al nostro rientro, ma soprattutto per metabolizzare. Nei miei viaggi in India precedenti (questo era il mio quinto) sono stata a Mysore, Varkala, Hampi. Ogni luogo svela una parte di India, anche perché l’India è enorme e, ovviamente, ogni luogo ha una propria personalità e una propria energia.
Nonostante fossi stata preparata da Max, Varanasi mi ha travolta. Definirla è quasi impossibile. Mi vengono in mente i tre guna, le tre qualità della materia. Varanasi è tutte e tre, a seconda di come la guardi, di come la vivi, di dove ti trovi e di quando ti ci trovi. Siamo arrivati a Varanasi all’alba, dopo un viaggio abbastanza pesante: 4 ore di pulmino da Mysore a Bangalore, l’attesa in aeroporto, due ore di volo, il trasferimento in pulmino dall’aeroporto a Varanasi. Muoversi, in India, è complicato quanto viverci. L’arrivo all’ashram è stato, però, un vero e proprio dono. Dopo aver percorso quella che aveva l’aria di essere una statale, affollata e rumorosa, ci siamo ritrovati in piena città; i soliti clacson, ma più tignosi e incazzati; tuk tuk che sfrecciano da tutte le parti; mucche e capre; moto e motorini; macchine e pulmini; gente, tanta gente; carretti e bancarelle ai lati delle strade; una marea di persone vestite per lo più di arancione, per la festa di Śiva, che cade proprio in questo periodo; canti, mantra, trombe e tamburi. Poi, improvvisamente, girato l’angolo, il silenzio. Come se avessero chiuso un enorme portone alle nostre spalle. Un momento eri in mezzo alla baraonda e al caos, subito dopo il silenzio. Il pulmino procede per viuzze sempre più strette, che si allontanano progressivamente dalla via centrale. Un paio di stop per chiedere dove si trovi li nostro ashram, e poi, improvvisamente, il Gange. Scendiamo dal pulmino, ci guardiamo in faccia. Siamo tutti emozionati. Non serve dire nulla, si vede dai nostri sguardi. Veniamo accolti come se ci aspettassero da tempo immemore (scopriremo poi che all’ashram son due mesi che fanno preparativi per accogliere il gruppo italiano). Oltre il cancello un ordinato giardino con siepi, piante, sentieri; un piccolo tempio sulla sinistra e, in fondo, delle scale che portano al piano superiore, dove si trovano le camere, pulite, ordinate, complete di scaldabagno e aria condizionata. Nella mia testa mi ero preparata a una frugalità estrema; mi ero immaginata una stanza comune per tutto il gruppo, con un bagno in comune. In questo luogo l’energia è decisamente sattvica: si respirano pace e armonia, accettazione e accoglienza, gentilezza e amore. E così saremo trattati per tutta la nostra permanenza; coccolati da continue attenzioni, piccole e grandi: dal cibo alla condivisione della quotidianità.
Varanasi città è tutta un’altra storia. E’ rajas, con la sua frenesia e il suo isterismo. Qui i clacson non vengono suonati solo per testimoniare la propria presenza, suonare il clacson è un atto più violento, carico di nervosismo e seguito da, credo, qualche insulto.C’è sicuramente più accanimento e tigna in questo gesto, rispetto a Mysore, dove i clacson sembrano più messaggi in alfabeto Morse, un codice di comunicazione, più che un’arma. Girare a piedi è stancante e faticoso, la fiumana di gente quasi ti travolge, quando non ti insegue per avere dei soldi. E ci si perde. Per lo meno, una persona come me, priva di senso dell’orientamento, rischia di non capire nulla. Le viette formano un dedalo che si richiude su se stesso, per aprirsi solo sui famosi ghat, le scalinate che scendono al Gange. Questa zona ha un fascino decadente e romantico. Mostra uno sfarzo ormai passato, polveroso e diroccato, bellissimo nella sua incuria. Ci dicono che il livello del Gange sta salendo abbastanza velocemente, per cui alcuni ghat sono già irraggiungibili, se non passando per le viuzze interne. Poi, improvvisamente, ci ritroviamo in mezzo a una colonna di fumo. Siamo arrivati al primo ghat dove avvengono le cremazioni. E qui l’energia cambia. Pur essendoci sempre confusione, dalla quale è impossibile prescindere, il rajas lascia il posto al tamas, alla fine, alla dissoluzione. Davanti a noi, in fondo alla scalinata, tre baldacchini metallici pieni di legna, bruciano. Un po’ più avanti una piattaforma circolare ospita una pira più importante, sulla quale è adagiato un fagotto bianco. Ci sediamo sugli scalini, mentre un bramino gira intorno a questa pira circolare, lanciando qualcosa, ripetendo mantra e formule. Si avvicina un uomo che ci spiega quello che sta accadendo: la piattaforma circolare ospita i morti importanti (quelli che possono pagare di più), chetano diritto al bramino che officia la cerimonia. La loro pira va avanti a bruciare anche per 3 ore. I tre baldacchini ospitano corpi meno ricchi, ma che ancora possono permettersi di essere cremati con la pira, ma senza bramino. Dietro di noi, in alto, dentro all’edificio alle nostre spalle, c’è invece il forno elettrico, molto più veloce, sbrigativo ed economico. Alle cerimonie le donne non sono ben accette; ci spiega che, essendo più sensibili ed emotive, tendono a manifestare più apertamente il proprio dolore, spesso attraverso il pianto, e questo sarebbe un forte ostacolo per l’anima che ha bisogno di serenità per lasciare il corpo. Rimaniamo seduti sugli scalini per un po’, ad onorare la fine di queste vite.
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