Monsoon Wedding – Un matrimonio in India – Parte 1
Due settimane fa riceviamo, un po’ come un fulmine a ciel sereno (ma piacevole e senza cielo sereno, visto il periodo piovoso) l’invito al matrimonio di Nishkal, il figlio di Ramesh. Mi si presenta, alla fine di una pratica di Shiva Flow, Max con il telefono davanti: “siamo stati invitati a un matrimonio… in India”.
Vedo Max fissarmi mentre nella mia testa rimbombano le parole “matrimonio” e “India” e mi esce: ovviamente ci andiamo. Max scoppia a ridere, poi inizia la lezione, ma ormai la mia mente è andata e il giorno dopo abbiamo già tutto organizzato.
Quei santi che stanno seguendo la Formazione di Yoga delle Emozioni davanti al mio entusiasmo accolgono la mia richiesta di spostare la data del secondo incontro, il resto viene da sé.
Il programma è folle, ne siamo consapevoli, ma non ci sfiora il minimo dubbio di rinunciare ad andarci: partenza venerdì sera, ritorno lunedì sera. Un week end in India. Sembra anche il titolo di un libro. È perfetto.
E così venerdì 31 maggio partiamo alla volta di Mysore, passando per Delhi e Bangalore, con un semplice bagaglio a mano. Anche accostare le parole “India” e “bagaglio a mano” mi fa un po’ ridere. Saliti in aereo ci rendiamo subito conto che sarà un week end particolare; stiamo andando al nostro posto, quando un signore indiano davanti a noi si ferma al suo di posto e comincia a sistemarsi con la lentezza che solo un indiano anziano può avere. Nella fila accanto c’è un altro signore anziano indiano col turbante che lo sta guardando. A un certo punto, scocciatissimo, sbotta e gli dice con tono aspro qualcosa in hindi, poi ci guarda scuotendo la testa e dice: “Che scemo”.
Una volta seduti ai nostri posti praticamente sveniamo, con qualche risveglio qua e là per essere nutriti. Ovviamente partiamo con 1 ora di ritardo, ma memore del “Zei vil vait iu” del viaggio di dicembre sono rilassata. E infatti, come da manuale, ci aspettano, nonostante i controlli a ritmo imbarazzante ai quali credo non mi abituerò mai. Alla fine arriviamo a Bangalore con 2 ore di ritardo e aspettiamo un tempo che mi sembra infinito quello che sarà il nostro autista durante tutto il week end (ingaggiato da Ramesh). Mentre cerchiamo di attraversare la città, impresa sempre impegnativa perché Bangalore è una delle città più trafficate che io abbia mai visto, comincia a diluviare. Il termine diluvio è improprio, sembra di essere nel lavaggio auto, più che altro. In un paio di minuti le strade diventano fiumi marroni, persone fradicie in camicia scappano coi loro scooter per cercare riparo sotto a qualche ormai affollatissimo ponte. 5 interminabili ore dopo, all’ora dell’inizio della festa pre-matrimonio, arriviamo alla shala di Ramesh, dove ci ha lasciato le chiavi infilate nella toppa della nostra stanza. Manik, l’amico punjabi di Max, ci aspetta con la moglie e la figlia per andare. Alzo la sguardo e dal tetto della palazzina a cubo dove si trovano la shala e le stanze dove normalmente alloggiamo, scorgo una cascata di luci accese che coprono la facciata. L’ingresso è addobbato con fiori gialli, corone di foglie e collane di rose e fiori di loto. Corriamo in camera ci sistemiamo più velocemente e decentemente possibile e scendiamo. Vediamo Manik arrivare in pantaloncini e maglietta, in moto. Ci guarda stupito: “Ma come? Siete già pronti?! Max, sembri un santo vestito così” e scoppia a ridere. “Vado a cambiarmi, 10 minuti e sono qui”.
30 minuti dopo compaiono pronti per andare. Io, da vera milanese imbruttita, sono in super sbattimento. Arriviamo alla festa con 1 ora abbondante di ritardo. Diluvia, ma loro hanno pensato a tutto. La macchina entra nel cancello di un palazzo veramente smargiasso, tutto illuminato, e ci troviamo sotto a un baldacchino da dove parte un tappeto rosso che porta verso l’ingresso. Cominciamo a salire le scale. Davanti all’ingresso scorgiamo un drappello di persone e tra le varie facce incuriosite dalla nostra presenza occidentale scorgiamo un sorriso a 32 denti: “Meeeex!”.
È lui, Ramesh, con una kurta di simil broccato rosa con sopra un gilet lungo di velluto rosa che mi ricorda i divani di casa sua, e delle scarpe bianche a punta. Gli occhi gli brillano, è felice mentre ci accoglie e ci ringrazia per essere venuti al matrimonio del figlio.
Entriamo nella sala. Ve la descrivo così come se stessimo varcando la soglia insieme: una hall enorme, tutta tempestata di marmi, piena zeppa di sedie rivestite con del raso che una volta fu bianco, e in fondo un palcoscenico con su gli sposi, al centro, e una coda infinita per salutarli e fare la foto con loro. Mentre cerco di chiudere la bocca che mi si è spalancata dallo stupore arriva festante Sheetal (chi ha letto i racconti dei viaggi passati sa già che si tratta della ragazza, ormai di famiglia, che tiene lezioni di pranayama e filosofia) con una gonna di velluto bordeaux e un top tutto scollato (a proposito, il mio amico indiano mi aveva consigliato di non scoprirmi, ma su questa cosa torniamo tra poco), truccata, con i capelli sciolti (è la prima volta in 6 anni che la vedo coi capelli sciolti). Mentre la saluto sento alle mie spalle Manik che dice a Max: “Sembra che sia lei a sposarsi”.
Prianka, la moglie di Manik, mi spiega che la festa non è altro che una cena durante la quale gli sposi staranno sul palco a salutare e fare foto con gli invitati. Non siamo in ritardo. Bene. Cominciamo a vagare per la sala. Le donne sono tutte in sari o con vestiti da sera con braccia scoperte, pance di fuori e scollature procaci. Vedo il mio riflesso in una finestra: sono vestita tale e quale al suonatore di tamburo ingaggiato per la serata. Stessa kurta accollata, dello stesso colore, pantaloni bianchi. Gli uomini si dividono in tre diverse tipologie, invece: gli elegantoni hanno scelto un abbigliamento che loro identificano come occidentale, completo “elegante” di colori che non sapevo manco esistere, scarpe a punta (per quel tocco indiano che l’occasione richiede), camicia con collettore a parabola. Niente cravatta, eleganti, ma casual. La seconda tipologia è lo scazzato in jeans e maglietta, nutrita schiera dei più giovani, comunque accompagnati da ragazze con sari da capogiro. Il terzo gruppo è quello tradizionalista, dove avrei potuto mettere Max, se non fosse risultato fin troppo tradizionalista. Gli indiani sono vestiti con kurta e pantaloni. E scarpe scelte assolutamente a caso: dalle ciabatte da doccia alle crocs alle scarpe a punta a quelle da tennis, vale qualsiasi cosa, basta che non c’entri nulla con il resto. Anche Max è fuori luogo, con la sua dothi (la gonna che sembra un pareo), la camicia bianca e lo strofinaccio sulla spalla.
Siamo già gli unici occidentale della festa, ora ho scoperto che siamo anche vestiti fuori tema. Questo non è un dettaglio da poco, perché per tutta la festa e per tutta la cerimonia del giorno dopo Ramesh ci metterà in situazioni sempre più imbarazzanti, rendendoci gli inopportuni per eccellenza.
Procedo col racconto.
Decidiamo di andare a mangiare “daunsteirs”, per lasciare che la coda infinita si smaltisca un pochino. La sala per mangiare è uno stanzone con file di tavoli di metallo e sedie di plastica dove, una volta seduto, passano a portarti da mangiare. Il dispiegamento di forze è impressionante, così come il numero di invitati che continuano a moltiplicarsi. Il piatto è una foglia di banano (Ramesh ci tiene alla tradizione e questo matrimonio ne è un’ulteriore dimostrazione) su cui passano a portare una serie di cibi colorati che trasformano la foglia nella tavolozza di un pittore: il giallo del dhal, il rosso della salsa più che piccante, il beige dei ceci, il verde delle ladies’ fingers, il bianco del dolce di riso. Io mangio, Max mangia, tutti mangiano, perché qui in India si festeggia la vita anche così, mangiando con le mani, tutti insieme, in fila, accanto a sconosciuti che diventano amici. Di fianco a me c’è una ragazzina che mi chiede da dove veniamo (ce lo chiederanno numerose volte per tutto il week end) e se parlo Kannada, la loro lingua. Mi sommerge di domande, è curiosa e vuole sapere come diavolo siamo finiti a quel matrimonio (e vorremmo saperlo anche noi). Le spiego brevemente chi siamo. Lei ogni tanto si gira e racconta alla madre che, una volta saputo che insegniamo yoga, mi chiede di dire alla figlia di praticare yoga perché fa storie e si rifiuta di farlo. Rido, ma la signora insiste e alla fine patteggiamo: la ragazza accetta di fare yoga se le mando io un programma con una sequenza (possibilmente video). Ci scambiamo Instagram, come delle vere giovani (lei più che altro). Mi salutano e vanno. Un minuto dopo ricevo un suo Hi. Qui in India attaccar bottone mi sembra più facile che altrove, anche se spesso attaccare bottone significa finire in un vicolo cieco perché poi fatico a capire il loro inglese. Il tasso di umidità mozza il respiro, mi sudano persino le pupille. Assaggio cose bizzarre che Manik mi passa. Non sto neanche a chiedere cosa sia, perché non lo sa neanche lui. Però sono buone, alcune buonissime. L’unica cosa che so non piacermi la evito, ma la prende Max: una foglia ripiena di spezie varie che usano a fine pasto per “pulirsi” la bocca e rinfrescare l’alito. Non piace neanche a lui dalla sua faccia. Intanto scendono altre persone e il caldo aumenta. Mi spiegano che i matrimoni del sud sono molto diversi da quelli del nord. “Se ti aspetti un matrimonio alla Bollywood sei nel posto sbagliato. Qui al sud sono più sobri, non ballano, non cantano”.
Mentre Manik mi parla mi chiedo cosa diavolo facciano al nord se questo per lui è un matrimonio sobrio. Mangiamo fino a rischiare di esplodere: salato, piccante, dolce, indefinibile, molliccio, croccante, liquido, gelatinoso, nomina una consistenza e un sapore… sì, anche quello. Una signora mi porge un sacchetto di plastica che contiene una scatola. Capisco dai suoi gesti che si tratta della bomboniera. Apro la scatola: una schiscetta. Giuro, una schiscetta di plastica, con dentro del riso crudo (che rappresenta la ricchezza e che le donne tradizionalmente lancia(va)no alle proprie spalle mentre lasciavano la casa paterna per ringraziare e mostrare la propria nuova indipendenza), delle bustine di curcuma per farsi il tillak (il segno sulla fronte) e una caramella. Geniale. Anche in questo sono strepitosi: qui non ci si perde in cianfrusaglie, anche la bomboniera ha la sua utilità. Tutto qui è intriso di simbolismo, nulla è lasciato al caso, ogni piccola cosa trova il proprio posto nella dinamica dell’universo. Anche questa schiscetta, che mi porterò nel bagaglio a mano anche a costo di lasciare qualcosa o portarmela a mo’ di borsetta.
Torniamo di sopra, più che altro è come riemergere e riprendere a respirare. Il mio omologo continua a suonare all’impazzata, la coda è più lunga di prima, gli ospiti si sono moltiplicati, sembra di essere a una convention. Ci avviciniamo al palco. Sbircio per vedere se scorgo qualche faccia amica. Una figura rosa (coordinata con Ramesh) si apre in un sorrisone: Suma, la mamma dello sposo, felice, si commuove nel vederci e “corre” ad abbracciarci. Con Suma non ci sono molti scambi, lei parla solo Kannada, per cui più che altro ci sorridiamo, dondoliamo le teste, ci prendiamo le mani e facciamo versi per comunicare, ma ci abbracciamo spesso, e con gli indiani non è così scontato, soprattutto con quelli del sud. Lei e Ramesh ci portano sul palco per salutare gli sposi e qui comincia la serie degli inopportuni. I loro matrimoni sono così diversi dai nostri che non sappiamo come muoverci, cosa fare, come farlo e cosa dire. Come sempre Ramesh si fa in 4 per noi e ci guida, aiutato anche da Manik, mentre deve gestire altre millemila persone. E come spesso accade ci fa sentire gli special guest della festa, i vip del matrimonio, quelli che ai concerti hanno il pass per il backstage e allo stadio il posto allo Skybox. Da questo momento in poi ci troveremo nei posti più in vista, a fare le cose più impensate, vestiti ovviamente fuori luogo e senza sapere quali reazioni l’etichetta ci richiederebbe. La goffaggine sotto a un occhio di bue.
Continua… oh, se continua!
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