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Varanasi 2024 – giorno 5

Giornata intensa. E lunga. E calda.

La sveglia alle 4.30 è stata impegnativa, ma ne valeva la pena. Prima di tutto per la temperatura: 26 commoventi gradi. Il sole non è ancora sorto (o almeno non si vede ancora all’orizzonte), ma c’è già luce. Scendiamo gli scalini dell’ashram che portano direttamente al Gange. Il barcaiolo ci sta già aspettando. Il Gange è calmo, finalmente sgombro da barche-tecno. Partiamo alla volta dei Ghat, le scalinate che portano dalla città al fiume. Intorno volano e giocano degli uccelli che sospetto siano i famosi tittibha, gli uccellini fluviali la cui storia ha ispirato tittibhasana.

Quando cantano sembrano quei pupazzetti col fischietto. Mentre navighiamo il sole comincia a sorgere, dall’altra parte del Gange. Alcuni raccontano che su quella riva non voglia andare ad abitarci nessuno perché si dice sia la parte negativa di Varanasi, dove succedono brutte cose. Probabilmente nell’antica Kaśi (il nome originario di Varanasi) su quella riva vivevano i rakśasa. Altri dicono che semplicemente la maggior parte della gente scelga il lato dove si trova la città perché ci sono più opportunità di lavoro e business, mentre dall’altra parte vada chi cerca la vita di campagna e chi preferisce ritrovare se stesso.

Passiamo davanti ai due Ghat dove cremano i corpi. Le fiamme sono accese giorno e notte. Questa volta andiamo avanti fino a esplorare anche i nuovi Ghat, fatti costruire dal governo, che sta risistemando la città. L’ultimo in ordine di creazione e apparizione è Namo ghat, quello che sta spopolando su Instagram, dove si trovano 4 paia di manone in Namaskara mudrā. Sulla scalinata principale i ragazzi di un ashram stanno praticando, vestiti di giallo. Alle loro spalle le mura di un ashram Hare Krishna, dove si trovano rappresentata scene tratte dal Mahabharata e i fatti salienti della vita di Krishna. Ci fermiamo per fare qualche foto e saliamo nuovamente sulla barca per andare sull’altra sponda, dove si trova il campo crematorio dove si trovano le spoglie del guru che ha fondato l’Aghor Foundation, dove si troviamo noi. Sembra di essere in un altro momento, un po’ Star Wars, un Mad Max. Sotto al ponte della ferrovia c’è una piccola comunità che vive tra la sabbia, in vere e proprie baracche. Il mausoleo (così lo definirei) si trova dietro a un recinto di filo spinato, custodito da una delle persone più scostanti e maleducate dell’India. Ci intima di non disturbare e di toglierci le scarpe. Andiamo a vedere le foto e le statue dedicate al Babaji, un vero e proprio mutante e poi ci sediamo per fare una meditazione guidati da Ajeet.

Mentre ho gli occhi chiusi mi sento osservata, così apro una fessura e vedo fuori dal mausoleo una sciami con la coda arricciata che ci guarda sbigottita. Usciamo, il sole è ormai alto, a caldo, molto caldo, oggi raggiungeremo i 43 gradi. Ci fermiamo a prendere un masala chai che Tejbal aveva già “ordinato” in una delle baracche, in modo che avessero tempo di procurarsi latte a sufficienza (siamo in 19) e mentre aspettiamo sotto gli alberi assistiamo alla rasatura di un uomo sulla panchina. Il barbiere lo gira e lo rigirare usando il suo naso come se fosse una maniglia, usando un rasoio a mano. Poi improvvisamente tira fuori un regola barba elettrico, così, dal nulla.

Torniamo alla braca per andare a fare colazione all’ashram. Qualcuno pratica, io collasso sul letto boccheggiante e poi vado con Max a fare un giro fuori dalla “colonia”. Un delirio, un vero e proprio delirio. Non trovo altre parole per definirlo. Tuk Tuk, macchine, motorini, biciclette, rikshaw, gente a piedi, carretti e carrettini, mucche, cani, frutta, cocchi e manghi, roba polverosa non ben definita, bustine colorate appese, bidoni di plastica, strade sconnesse (che manco a Milano), polvere, polvere, polvere.

Nel pomeriggio andiamo a fare un giro tra i negoziati dei Ghat. Si schiuma, decisamente. Altro chai e poi torniamo per cena. Il dopo cena sarà speciale: andremo a un concerto al tempio di Hanuman. Arrivano i Tuk Tuk a prenderci. La sera c’è ancora più casino. Incredibile. Negozi aperti, piazze bloccate da macchine e Tuk Tuk strombazzanti. Mentre andiamo ci passa accanto un bambino in bicicletta. Ci supera guardandoci. La percezione della velocità è davvero relativa, mi sembrava di sfrecciare. Invece no.

Entriamo al concerto. Hanno messo tappetino ovunque dove le persone si sono sdraiate a terra. Alcuni chiacchierano, alcuni sonnecchiano, alcuni addirittura dormono in posizione scomposte. C’è un privé, dove hanno sistemato dei divano rosa, di velluto, che sudo solo a vederli. Sono sistemati in una nicchia, in fondo alla sala , dove si vede peggio, e sono divisi dal resto con un filo appeso da lato a lato. Ci sistemiamo a terra mentre destiamo la curiosità degli avventori. Siamo praticamente gli unici occidentali, in poco tempo comincia la processione di telefonini e macchine fotografiche. Il concerto inizia. Lo tiene uno dei più famosi e bravi suonatori di sitar di Varanasi accompagnato dal figlio alle tabla, altrettanto bravo e famoso. Dopo un’introduzione, che sembra non avere fine, di solo sitar, durante la quale il padre mostra tutte le sue abilità e soprattutto la sua velocità e lancia sguardi auto-compiaciuti sulla folle, invitando applausi con ammiccamenti vari, interviene anche il figlio. Altrettanto rapido, altrettanto ammiccante, si scambia sguardi di intesa col padre, ciondolando la testa. Ogni tanto guarda il pubblico e sorride di trequarti, mi sembra di vedere la stellina luminosa all’angolo della bocca. Pubblico in delirio che batte le mani, a caso. Ognuno va per la propria strada, come al solito d’altra parte.

Accanto a noi alcuni ragazzi della comunità queer di Varanasi, un po’ più in là dei ragazzi con l’aria da belli e dannati, con capelli lunghi, mossi, ingellati, barbe curate kurta e jeans, uno addirittura ha un marsupio con la fiamme da vero randagio. Sono sdraiati con aria un po’ scanzonata, ma seguono lo spettacolo. Dall’altra parte famiglia intere: dai bambini a i nonni, non manca nessuno. La stanchezza comincia a farsi sentire, cominciamo a manifestare l’intento di andare, ma annunciano un’altra performance, questa volta dotata di singer, cantante.

Decidiamo di rimanere ancora un altro po’. Cominciano a sfilare una serie di personaggi pittoreschi con strumenti, mai visti. Uno ha sotto al braccio l’alettone di una macchina da formula 1, uno si siede davanti a un armonium, una ragazza arriva con una provola elettrica, piena di tasti, torna il giovane suonatore di tabla, davanti il cantante e dietro uno si siede e basta. Ecco, questi non sono proprio dei fenomeni. O almeno, a noi ignoranti della musica indiano appaiono così.

Vabbè… si è fatto tardi… andiamo 

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